L’America ci ha dato tanto, molto più di quanto non riusciamo ad apprezzare, giustificare o colpevolizzare.
In tutte le sue contraddizioni è sempre possibile trovarvi dei personaggi che riescono ad attraversare indenni quasi cinquant’anni di storia, dinanzi ai quali anche la critica più feroce e retrograda alla fine è costretta a inchinarsi.
Lou Reed è stata una delle tante storie di New York. Una di quelle belle. Ci ha parlato delle storie delle persone, delle loro debolezze come delle loro fissazioni. Ci ha dimostrato che non serve la voce di Robert Plant o il plettro di Steve Vai per scrivere la tua storia, scriverla come vuoi tu, e far sì che tanti altri vi si riconoscano.
Lo vogliamo ricordare col suo giubbotto di pelle degli esordi, col trucco pesante di Transformer, con la banana di Andy Warhol del primo, grandioso disco, col brioso ritornello di Walk On The Wild Side ma anche con il tetro incedere di Venus in Furs, col capolavoro inosservato di Songs for Drella in memoria dell’amico Andy.
Adesso aspetto che quest’America ce ne consegni un’altro di questi figli, che possa osare tanto da bissare il suo primo disco, The Velvet Underground & Nico, e che qualcuno tra cinquant’anni possa ricordare come io e molti altri stiamo facendo adesso.
In fondo non chiedo tanto: sarà solo un’altra Storia di New York.
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